I terroristi sono miei fratelli. Don Bussu, il cappellano che piegò lo Stato

Luciano Piras
I terroristi sono miei fratelli
Don Bussu, il cappellano che piegò lo Stato
àndel@s edizioni (esaurito)
Nuoro 2013

dal 2017 disponibile in versione ebook su Amazon


«“Non riesco a credere in un Dio che mi sovrasta, che mi sta fuori” scriveva Franceschini al suo cappellano. Lui, terrorista, aveva ben presente il senso del Natale, e riflettendo sull’Incarnazione s’intuisce meglio la beatitudine in Matteo: “Ero carcerato e siete venuti a visitarmi”». È con queste parole che il vescovo di Nuoro monsignor Mosè Marcia si rivolge ai cappellani delle carceri di tutta Italia. Trent’anni dopo i famosi “fatti di Badu ‘e Carros”, il presule della diocesi sarda ricorda una piccola-grande parentesi “di periferia” che ha segnato profondamente la storia del regime penitenziario italiano. E lo fa in un momento particolare, di strettissima attualità, mentre è ancora aperto il dibattito politico-culturale sulla drammatica situazione carceraria. «La pietas dell’uomo, che voi cappellani sapete porre e col detenuto vivere, è una forza incredibile, che lo Stato non sente» scrive Marcia in una lettera che accompagna un dono speciale della diocesi di Nuoro ai preti delle carceri: I terroristi sono miei fratelli. Don Bussu, il cappellano che piegò lo Stato, libro scritto dal giornalista Luciano Piras.

Molto più che la semplice biografia di un sacerdote. È un viaggio nel passato, per tentare di capire il presente e affrontare meglio il futuro. È la storia di don Salvatore Bussu, l’umile cappellano della provincia barbaricina che nel dicembre 1983 uscì dal supercarcere di Badu ‘e Carros sbattendo le “porte”, mentre Papa Giovanni Paolo II entrava a Rebibbia per stringere la mano al suo attentatore Alì Agca. Don Bussu, giornalista pungente inquieto per Cristo, direttore del settimanale diocesano L’Ortobene, oltre che cappellano, si autosospese dal mandato sacerdotale e si schierò apertamente dalla parte dei brigatisti rossi della prima ora (Franceschini, Bonisoli… ) che nel supercarcere di Nuoro stavano attuando lo sciopero della fame, la prima rivolta pacifica nei penitenziari d’Italia, per denunciare le condizioni disumane cui erano sottoposti. Il cappellano parlò di “terrorismo di Stato”, una provocazione talmente pungente che fece scoppiare un vespaio di polemiche che costrinsero l’allora ministro di Grazia e Giustizia Mino Martinazzoli a intervenire, prima per attenuare il cosiddetto “regime di massima sicurezza”, poi addirittura per smantellare i “Braccetti della morte”.

Subito dopo, il Parlamento accelerò la discussione sulla riforma del sistema penitenziario e nel giro di poco tempo si arrivò alla Legge Gozzini. Fu una grande conquista di civiltà, una grande battaglia sociale vinta da don Bussu e dalla diocesi di Nuoro. In prima fila, a sostenere il cappellano, infatti, c’era l’allora vescovo, monsignor Giovanni Melis, che non esitò ad alzare la voce contro quel groviglio di norme e regole “inutilmente brutali” che lo Stato aveva messo in piedi negli anni più oscuri della lotta alle Br. «Leggendo il libro – sottolinea oggi monsignor Mosè Marcia – ho capito ancora di più che i miei gesti di prete, di vescovo, dentro il carcere non mirano a un risultato di Chiesa, ma di umanità. Quello che devo cercare di ricordare è che ognuno, fosse pure un assassino, è sempre un essere umano». Eppure, trent’anni dopo Badu ‘e Carros, lo Stato italiano è ancora una volta “fuori norma” e per questo motivo ripetutamente condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il sovraffollamento delle carceri e le condizioni in cui vivono i detenuti sono tali da costringere la Corte di Strasburgo a intervenire a più riprese. Una situazione che don Salvatore Bussu conosce bene, dall’alto dei suoi 85 anni, nonostante si sia ritirato dalla vita pubblica, alla ricerca di serenità e salute.

 

(comunicato stampa 02/2014)